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Era giugno, o forse l’inizio di luglio. Il grano era dorato, maturo, pronto. Si tagliava con la falce, a mano. Gli uomini e le donne del vicinato si radunavano nei campi e si aiutavano tra loro. Cantavano stornelli ciociari, si rispondevano con la voce alta, come in un racconto cantato, per farsi forza.
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Mia nonna aveva 46 anni. Magra, giovane, ma forte come la sua terra. Portava la falce con fermezza, e mentre gli altri si fermavano, lei continuava a tagliare, con la schiena piegata e il cuore dritto.
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Non rideva mai. Non era triste, era stata segnata dalla vita. Un figlio le era morto. Il marito era partito per l’America e non era più tornato. Sua figlia — mia madre — si era sposata ed era andata via, in un altro paese. Lei era rimasta sola, in quella casa di pietra, con i suoi olivi, la vigna, le bestie, e la sua dignità.
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Ma non si era arresa. Ogni giorno si alzava presto, lavorava senza sosta, e quando arrivava la mietitura, cantava con gli altri, forte, quasi a voler sfidare il destino. E tutti la ascoltavano.
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A mezzogiorno, tornava alla casetta e preparava da mangiare: fettuccine fatte a mano, sugo di conserva. Portava tutto sotto l’albero. Solo acqua per i lavoranti: “Se no non lavorano più.” E quando portava il vino annacquato, tutti ridevano.
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> “Elvira, ma che c’hai portato? Questo è vino o è acqua. Colorata
Ma lei non rideva.
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